Cari amici,
quando volano gli stracci e si dirada il polverone così sollevato, si vedono ridotti in pezzi gli oggetti che quella polvere copriva. Quelli che sono apparsi dopo lo scontro del 28 Febbraio nello Studio Ovale della Casa Bianca sono i cocci di due idoli caduti: il mito dell’America come messia collettivo e guida delle Genti e il mito di Israele come terra promessa e “città di rifugio” del popolo di Dio.
Quanto al primo idolo è difficile descriverne la fallacia senza incorrere nell’accusa di essere putiniani, iconoclasti dei valori dell’Occidente. Sediamoci perciò anche noi nell’aula del Parlamento europeo, per sentire l’analisi che del potere di questo idolo ha fatto il 25 Febbraio scorso ai deputati europei uno degli americani più autorevoli, l’economista Jeffrey Sachs, una delle 100 persone più influenti secondo la lista redatta ogni anno dalla rivista statunitense Time e già direttore dell‘Earth Institute alla Columbia University. Invitato a Strasburgo per illustrare la sua visione di una “Geopolitica della pace”, il professor Sachs ha parlato dell’America e della sua politica negli ultimi 36 anni e ha cominciato citando le guerre in Medio Oriente, tra cui Iraq e Siria, le guerre in Africa, tra cui il Sudan, la Somalia, la Libia, guerre che gli Stati Uniti hanno condotto e causato. Gli Stati Uniti – ha detto – soprattutto durante gli anni 1990-91 e con la fine dell’Unione Sovietica sono giunti alla conclusione che dovevano “governare il mondo senza ascoltare le opinioni di nessuno, senza tener conto di ‘linee rosse’, delle preoccupazioni di sicurezza degli altri Paesi, degli obblighi internazionali e del quadro dell’ONU”. Nel 1991 hanno deciso di non fare nulla per evitare la decomposizione dell’Unione Sovietica e aiutarla a fare le sue riforme per prevenire il disastro; poi hanno creduto che il mondo fosse ormai degli Stati Uniti, hanno cercato di staccare dalla Russia tutti gli alleati dell’era sovietica come l’Iraq e la Siria, mentre l’Europa non aveva nessuna politica estera se non quella della lealtà verso l’America. L’ultima volta che l’Europa ha avuto una voce è stato quando Francia e Germania sì sono opposte all’invasione dell’Iraq, “una guerra direttamente inventata da Netanyahu e dal Pentagono, aggirando il Consiglio di Sicurezza”. Poi l’Europa ha perso la sua voce quando gli Stati Uniti hanno deciso che l’unipolarismo significava che la NATO si doveva estendere da Bruxelles a Vladivostok passo dopo passo. Gli Stati Uniti hanno pensato che qualsiasi luogo senza una base militare americana fosse fondamentalmente un nemico: “neutralità è una parolaccia nel lessico politico degli Stati Uniti: se sei un nemico sappiamo che sei un nemico, se sei neutrale sei un sovversivo perché in realtà sei contro di noi ma non ce lo dici”. La decisione sulla NATO fu presa formalmente nel 1994 quando Clinton firmò per l’allargamento ad Est benché il segretario di Stato James Baker e il ministro degli esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher il 7 Febbraio 1990 avessero assicurato a Gorbaciov che la NATO non si sarebbe mossa verso Est e che gli Stati Uniti non avrebbero tratto vantaggio dalla dissoluzione del patto di Varsavia: “un impegno preso in un contesto giuridico e diplomatico, non occasionale, per porre termine alla Seconda guerra mondiale e aprire la strada alla riunificazione tedesca”. Che la NATO non si sarebbe allargata di un centimetro verso est fu poi ribadito in innumerevoli documenti successivi. In realtà l’idea era che la NATO e l’Europa dovessero espandersi insieme. “Si tratta di un progetto trentennale, giunto fino ad ora” (cioè, forse, fino alla telefonata Trump-Putin del 12 febbraio), “di cui l’Ucraina e la Georgia sono state le chiavi”. Secondo Sachs questa è la lezione che l’America ha imparato dall’Impero inglese, di cui aspira ad essere l’erede: mettendo Ucraina, Romania, Bulgaria, Turchia e Georgia nella NATO, si sarebbe bloccata la Russia sul mar Nero, negandole l’accesso al Mediterraneo e riducendola a poco più di una Potenza locale.
Sulla base della sua conoscenza diretta dei presidenti americani e delle loro squadre Sachs ha affermato che nulla è cambiato molto da Clinton a Bush junior a Obama a Trump a Biden se non forse in peggio, essendo stato Biden appunto il peggiore. E proprio il riferimento a Biden ha dato a Sachs l’occasione per citare una circostanza che dovrebbe far molto riflettere sul grado di razionalità con cui vengono prese le decisioni nelle nostre democrazie, dove l’apparenza conta più della realtà. “Il sistema politico americano, ha detto Sachs, è un sistema di immagini, di pubbliche relazioni, un sistema di manipolazione dei media ogni giorno”, sicché Biden ha potuto restare alla presidenza anche negli ultimi due anni in cui non era padrone di sé (compos mentis), e perfino ricandidarsi, finché un incidente, occorso quando ha dovuto restare per 90 minuti solo su un palco, ne ha decretato la fine.
Del progetto andato avanti negli ultimi 30 anni, ha continuato l’ospite americano, fa parte il bombardamento di Belgrado nel 1999 per 78 giorni consecutivi : sì, perché i confini sono “sacrosanti”, tranne quando l’America li cambia, come per il Kosovo, o per il Sud Sudan, “che non ha sconfitto il Sudan grazie a una insurrezione tribale, ma è stato un progetto degli Stati Uniti, un ‘copione’ della CIA”.
Poi c’è stato l’undici settembre e gli Stati Uniti decidevano che avrebbero scatenato 7 guerre in 5 anni, e il generale Clark, comandante supremo della NATO, come ha rivelato in un’intervista alla TV, se lo senti dire il 20 settembre dal Pentagono: “ inizieremo con l’Iraq e poi ci sposteremo in Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran”: le guerre di Netanyahu nel quadro della nuova strategia israeliana di “rottura netta” (Clean break) con la politica della “terra in cambio di pace”, cioè dei due Stati in Palestina.
Il prof. Sachs è andato avanti così a lungo, provocando un forte trauma negli allibiti parlamentari europei. Ed ecco che. pochi giorni dopo tale evento, l’idolo così descritto suscitava l’esecrazione dei suoi adoratori, quando nello Studio Ovale della Casa Bianca, sfidando ogni problema di immagine, Trump faceva fare agli Stati Uniti la prima cosa buona dopo trent’anni: cercare cioè di fermare la guerra, negoziando con Putin, contro il suicida sciovinismo di Zelensky. Certo il folle della Casa Bianca non lo faceva spinto da un ideale internazionalista, che è estraneo alla sua spiccia cultura, ma perché crede che la nuova “grandezza” e gli interessi dell’America non stiano nella guerra (nella “competizione strategica”) per dominare un mondo unipolare, ma nel fare i propri affari, nel mettere i dazi e procurarsi, a spese dell’Ucraina, le “terre rare”. È questo infatti che risulta dalla trascrizione integrale del diverbio alla Casa Bianca, che non è stato un agguato a Zelensky, ma è stato un tentativo arrogante di Zelensky (con tanto di fotografie sui crimini di Putin) di mandare all’aria la prima e più importante impresa diplomatica del leader americano, motivata tra l’altro dalla volontà di ripristinare i rapporti con la Russia ed evitare la guerra mondiale. l a reazione inconsulta degli adoratori del vecchio idolo e atlantisti per fede è stata di sorvolare su Trump e di schierarsi con Zelensky e con i suoi sogni di gloria.
A questo punto per l’Europa, per i pupilli dell’Occidente e per noi la decisione sul che fare, fuori dalle reazioni precostituite e dai dogmi del passato, è una sfida del pensiero. Forse dobbiamo ritornare alla inquietante sentenza di Heidegger, secondo cui, dopo il nazismo, dopo l’assalto al cielo in cui ci travolge la civiltà della tecnica, “solo un Dio ci può salvare”.
Il filosofo tedesco non ci ha detto quale Dio, ma nella tradizione in cui egli si poneva non poteva trattarsi che del Dio della eredità ebraica e cristiana, che vuol dire Dio e gli esseri umani insieme. Per questo è una tragedia che in questo stesso tempo l’altro idolo caduto sia quello del nesso tra la promessa biblica e lo Stato d’Israele. Negli stessi giorni della svolta americana, due inchieste, una dell’esercito israeliano e una della società civile, hanno smontato il mito dell’eccellenza di Israele, hanno messo in luce il fallimento delle Forze armate e dei Servizi israeliani di fronte agli attacchi del 7 ottobre, hanno rivelato che le autorità, pur avvertite, hanno lasciato che l’aggressione si compisse, forse come utile casus belli per farla finita con Hamas, e che lo stesso Netanyahu aveva sguarnito il fronte di Gaza per infierire contro i palestinesi in Cisgiordania. Ed è una tragedia che con la distruzione di Gaza e della sua gente sia stata profanata la “terra promessa”. È una tragedia che gli Ebrei ortodossi danzino nelle strade per la gioia di sapere che Netanyahu, con l’approvazione di Trump, ha vietato l’ingresso del cibo e degli aiuti per la popolazione stremata di Gaza. È una tragedia la conseguente crisi del dialogo ebraico cristiano, tentato anche da noi, ed è ragione di angoscia sapere che il Papa sta male.
Ma così a questo punto si apre per l’umanità tutto l’enorme problema di scongiurare la guerra mondiale e la fine di tutto, e perciò di rimettere in gioco tutto il pensiero, e l’hybris del pensiero, che ci ha portato fin qui.
Nel sito “Prima loro” pubblichiamo un appello su “che fare? Per salvare l’Europa e riparare il mondo”; il discorso integrale del prof. Sachs; una lectio magistralis su guerra e pace di Giuliano Pontara; nel sito “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” pubblichiamo con un accorato augurio per la malattia del Papa due suoi messaggi straordinari dal Gemelli.
Con i più cordiali saluti
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