Ricognizione sullo stato del mondo

Si può ancora sperare nella pace?
UnaLectio magistralis” sulle nuove guerre, le nuove minacce, i moniti inascoltati, le soluzioni possibili. Rivolgendo l’attenzione alle forze morali, costruttive e non violente, si possono trovare ragioni per non disperare.

Giuliano Pontara

La Carta delle Nazioni Unite, approvata nel giugno del 1945 si apre con questa solenni parole: “Noi, i popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra… “. A tutt’oggi questa promessa non è stata mantenuta. Dal ’45 in poi il mondo è stato continuamente sconvolto da guerre, guerre civili, attacchi terroristici e altri conflitti armati. In modo particolare, secondo vari rapporti negli ultimi dieci anni la sicurezza globale ha continuato a deteriorarsi. E negli ultimi due anni la situazione è peggiorata.  Secondo il recente Rapporto dell’Institute for Economics and Peace a tutto il 2024 erano in atto a livello internazionale 56 conflitti armati, il maggior numero di tali conflitti registrato dal 1945 in poi. Tra questi spiccano per intensità e brutalità i massacri reciproci in atto nella  guerra Russo-Ucraina  cui partecipano per procura gli Stati Uniti e una molteplicità di Paesi membri della Nato; figura il massacro indiscriminato della popolazione palestinese nella striscia di Gaza perpetrato dall’esercito di Israele  dopo il brutale attacco di Hamas nel febbraio dell’anno scorso; figurano le guerre civili in Myammar, in Sudan, in Yemen, in Congo e altri brutali conflitti armati in Etiopia, Somalia, Nigeria, Mali, ecc.

Sono minacciati nuovi e aspri conflitti, nuove guerre per il controllo dell’acqua, per lo sfruttamento delle risorse dei fondi marini e oceanici, per il controllo e per lo sfruttamento delle risorse nella regione artica, per il controllo dello spazio. Ulteriori aspri conflitti si profilano all’orizzonte in seguito a sempre più vasti movimenti migratori, milioni e milioni di persone che fuggono dai propri Paesi a causa di guerre e di radicali cambiamenti climatici in un mondo in cui gli Stati chiudono sempre di più i propri confini.

Continua la folle corsa ad armamenti di distruzione di massa e la conseguente ulteriore militarizzazione della società. Secondo il più recente rapporto del SIPRI, l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace sito a Stoccolma, nel 2023 la spesa militare globale ammontava a 2443 miliardi di dollari, pari a 306 dollari a persona. Un aumento di quasi il 7% rispetto al 2022. La militarizzazione della società è cresciuta in 108 Paesi. Con l’aumento della militarizzazione è anche cambiato il linguaggio. Quelli che una volta erano chiamati Ministeri della guerra sono oggi eufemisticamente chiamati Ministeri della difesa; quelle che erano chiamante industrie belliche sono oggi chiamate industrie della difesa. Ogni stato si vuole “difendere”: La Russia all’imperialismo militare della NATO, contrappone l’imperialismo della Russia.

 Sempre secondo le stime del rapporto del SIPRI, all’inizio del 2024 i nove Stati detentori di armi  nucleari disponevano complessivamente di 12.121 armi nucleari, di cui 9.585 considerate potenzialmente pronte all’uso; 3.904 testate nucleari erano dispiegate e operative e circa 2.100 di esse in stato di elevata prontezza – 100 in più rispetto al 2023. Insieme, USA e Russia possiedono quasi il 90% di tutte le armi nucleari nel mondo ed entrambi i Paesi hanno in corso programmi estesi per sostituire e ammodernare le proprie testate nucleari, i propri sistemi di lancio missilistici, aerei e sottomarini, e i propri impianti di produzione di armi nucleari.

Se continua l’escalation della guerra in Ucraina aumenta il rischio che la Russia, sempre più pressata dall’ ulteriore fornitura di armi all’Ucraina da parte degli Stati Uniti e di altri Paesi membri della NATO, passi dalla minaccia di usare armi nucleari al loro effettivo uso. Ma non è solo la Russia che minaccia l’uso di armi nucleari. Già vent’anni or sono, nel 2005, in un documento ufficiale del Joint Chiefs of Staff delle forze armate statunitensi questa minaccia era apertamente dichiarata; in questo documento si legge che ‹‹le opzioni variano dall’impiego selettivo di un piccolo numero di armi nucleari contro un insieme di obiettivi attentamente delimitati, ad un attacco generale contro un insieme più vasto e diversificato di obiettivi›› (Doctrine of Joint Nuclear Operations. Final Coordination).

Aumenta il rischio di una catastrofica guerra termonucleare esiziale per il genere umano e non solo: un olocausto nucleare scatenato da una volontà perversa, o per un fatale e incorreggibile errore umano, o a causa di un irreparabile errore tecnologico; o da nuovi, sofisticati sistemi di armi robotiche guidate dalla intelligenza artificiale, e che sfuggono al controllo umano. Già dieci anni or sono il noto scienziato Stephen Hawking metteva in guardia: “lo sviluppo di un’avanzata intelligenza artificiale potrebbe segnare la fine della specie umana. Si svilupperebbe da sé e ridisegnerebbe a ritmo sempre più accelerato se stessa. Gli umani, limitati come sono da una lenta evoluzione biologica, non potrebbero competere e sarebbero soprasseduti”. Nel dicembre scorso, un altro noto scienziato, Geoffrey Hinton, considerato il padre dell’intelligenza artificiale e uno dei due scienziati insigniti del premio Nobel per la fisica nel2024 ha di nuovo messo in guardia: constatando che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale procede molto più rapidamente di quanto precedentemente stimato, ha dichiarato  che “c’è  un rischio che varia dal 10 al 20 per cento che l’intelligenza artificiale distrugga l’intera umanità nel giro dei prossimi trent’anni”.

La lancetta dell’orologio dell’apocalisse – pubblicato regolarmente sul Bulletin of the Atomic Scientists è stata spostata a 90 secondi dalla mezzanotte; una vicinanza mai raggiuta prima. La mezzanotte rappresenta qualsiasi evento che può infliggere danni irrevocabili all’umanità, compresa una guerra atomica e una irreversibile catastrofe dovuta al surriscaldamento del clima. 

Se le cose stanno così l’umanità oggi si trova al bivio.  Si può ancora sperare nella pace?

Quale pace? Muovo dalla nozione tradizionale di pace come antitesi della guerra, intendendo per ‘guerra’ un conflitto tra gruppi politici che fanno ricorso alla lotta armata collettiva, durevole e organizzata. Un mondo in cui regna la pace è un mondo liberato in modo stabile e duraturo dal ‘flagello’ della guerra, nella triplice forma della guerra tra Stati, della guerra civile, e della politica di potenza fondata sulla minaccia della guerra. Infatti, come già rilevava Thomas Hobbes quattro secoli or sono: “La GUERRA … non consiste solo nella battaglia o nell’atto di combattere, ma in uno spazio di tempo in cui la volontà di affrontarsi in battaglia è sufficientemente dichiarata. […] Ogni altro tempo è PACE”

Un mondo umano liberato in modo stabile e duraturo dal flagello della guerra è un mondo in cui si è realizzata quella che Immanuel Kant sperava: una pace perpetua.

Operare per una pace stabile e duratura nel mondo è un problema globale e come tale richiede una soluzione globale. Dipende da come agiscono le generazioni presenti e da come agiranno le generazioni nel più immediato futuro.

L’attuale sistema ‘anarchico’ internazionale, costituito da 196 Stati sovrani, costituisce un formidabile ostacolo alla istituzione di una pace perpetua. In un siffatto sistema prima o poi si scatena la guerra: così è avvenuto sinora nella storia. 

In un tale sistema anarchico di Stati si verificano dilemmi connessi al fatto che ogni Stato è prigioniero della logica dell’interesse nazionale. Un tale dilemma particolarmente pericoloso per l’umanità si verifica tra Stati in possesso di armi nucleari.

Il dilemma è questo. È nell’ interesse di tutti gli Stati – di tutti i popoli della terra – che siano abolite totalmente e per sempre le armi nucleari. È dunque nell’interesse di tutti i popoli di tutti gli Stati dotati di armi nucleari che tutti questi Stati aboliscano totalmente i propri sistemi di armi nucleari. Allo stesso tempo, è nell’interesse di ciascun Stato detentore di armi nucleari  preso singolarmente che tutti gli altri Stati detentori di armi nucleari aboliscano questi sistemi d’arma, o addirittura i propri eserciti, ma esso stesso mantenga il proprio. In base a questa logica- e non essendoci metodi infallibili di controllo che ogni Stato non mantenga segretamente delle armi nucleari – nessuno Stato è portato a smantellare le proprie armi nucleari. E cosai si innesta la corsa a armi nucleari sempre più “ammodernate” e il conseguente “equilibrio del terrore” fondato sulla premessa che ad ogni attacco nucleare si risponderà con un contrattacco nucleare. Questa è la cosiddetta strategia “di sicura reciproca distruzione” – in inglese Mutual Assured Destruction– accorciato in MAD, che in inglese è l’aggettivo del sostantivo Madness, che in italiano si traduce con “FOLLIA.” Una FOLLIA che dimostra definitivamente la falsità del principio “Si vis pacem, para bellum“, perché gli Stati che in base a questo principio hanno preparato la guerra prima o poi nel corso della storia l’hanno fatta; e ciò a sua volta ha portato a una ulteriore escalation della corsa ad armamenti sempre più distruttivi fino alle due bombe atomiche che in pochi minuti rasero al suolo le due città di  Hiroshima e Nagashaki.  

Oltre un secolo fa, nel 1895, un pensatore illuminato, Friedrich Engels, faceva questa profezia: ‹le spese militari crescenti in modo geometrico›› sfoceranno in ‹‹una guerra mondiale di un orrore inaudito e di conseguenze assolutamente incalcolabili […]una guerra devastatrice quale il mondo non ha mai conosciuta››. Questa profezia si avvera nel 1914 con l’inizio della Prima guerra mondiale. Ma la lezione della storia non viene colta: non molto dopo la fine della Prima guerra mondiale, la corsa agli armamenti riprende e si intensifica.  Nel 1938 Gandhi fa una nuova profezia: ‹‹se la folle corsa agli armamenti continua, porterà a un massacro senza precedenti nella storia››. Un anno dopo anche questa profezia si avvera. E nel 1945, dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, Gandhi di nuovo mette in guardia: ‹‹a meno che il mondo ora accetti la nonviolenza esso andrà sicuramente incontro al suicidio››.

Così sosteneva pure Albert Einstein: “Il potere scatenato dall’atomo ha cambiato tutto ad eccezione del nostro modo di pensare e pertanto stiamo naufragando verso una catastrofe mai vista prima”. Viene in mente uno dei pensieri di Pascal il quale scriveva: “Noi corriamo spensierati verso un precipizio, dopo esserci messi dinanzi agli occhi qualche cosa che ci impedisce di vederlo”.

Secondo il realismo politico, il fine della politica è la sopravvivenza del popolo: salus populi suprema lex; oggi – al bivio della storia – il popolo è il genere umano: Salus humanitatis suprema lex.

Poco dopo la fine della seconda guerra mondiale il filosofo Bertrand Russel nel 1951 fece questa dichiarazione: “Prima della fine del presente secolo, a meno che non accada qualcosa di imprevedibile, si verificherà una di queste tre possibilità:1) la fine di ogni vita umana sul pianeta; 2) la regressione al barbarismo dopo un evento che causa una diminuzione catastrofica della popolazione del pianeta; 3) l’unificazione del mondo sotto un governo detentore del monopolio della forza.”

Queste parole sono più che mai terribilmente attuali.

La liberazione dal flagello della guerra e la realizzazione di una pace globale stabile e duratura esige oggi il disarmo di tutti gli Stati e l’istituzione di un governo mondiale unico detentore del monopolio della forza. 

Così sosteneva pure Albert Einstein. Al fine di evitare la catastrofe e assicurare una pace stabile e duratura, Einstein sosteneva che “deve essere istituito un governo mondiale detentore del monopolio della forza e capace di dirimere i conflitti tra le nazioni in base a una Costituzione approvata dai governi delle singole nazioni”.

E Gandhi, il Mahatma, già nel 1947disse che “l’unica condizione il cui il mondo può vivere unito è sotto un governo centrale composto da rappresentanti delle parti che lo compongono”…”Tutti gli Stati saranno disarmati. Ci sarà una forza di polizia internazionale per garantire le condizioni più superficiali della pace. Tuttavia, anche il mantenimento di una tale polizia internazionale sarà una concessione alla debolezza umana e in nessun modo un simbolo di pace”.

Il problema della eliminazione del flagello della guerra e della instaurazione di una pace stabile e duratura a livello globale, non è però il solo problema la cui soluzione richiedere un governo mondiale. Un tale governo è pure necessario per la soluzione di due altri grandi problemi globali altrettanto impellenti quanto quello della pace e strettamente interconnessi con quello. Il primo problema è quello di bloccare il riscaldamento del clima prima che si verifichi un surriscaldamento irreversibile con conseguenze esiziali per le generazioni di esseri umani -e non solo – che esisteranno in futuro, se prima un olocausto nucleare o una perversa intelligenza artificiale non avrà posto fine all’umanità.  Il secondo problema globale è l’eliminazione definitiva delle enormi e tuttora crescenti disuguaglianze economiche – sia nella distribuzione del reddito, sia, e ancor più, nella distribuzione della ricchezza – e con esse l’eliminazione definitiva della massiccia povertà assoluta e della morte per fame cui sono ancora condannati centinaia di milioni di esseri umani.

Come si può realizzare un governo mondiale? La risposta più spesso data a questa domanda è la teoria del cosiddetto “pacifismo democratico”.

È corroborato empiricamente che in uno Stato di diritto in cui le istituzioni democratiche sono stabili e ben radicate, i diritti fondamentali rispettati, e vige una distribuzione equa delle risorse economiche, i conflitti sociali sono gestiti e risolti in modi pacifici e costruttivi; la migliore prova di ciò è fornita dalle democrazie scandinave nel periodo di maggiore realizzazione del welfare state. In un tale tipo di società, la distribuzione equa delle risorse economiche, e il buon funzionamento di stabili istituzioni democratiche, congiuntamente favoriscono e supportano tra i cittadini lo sviluppo di una vasta e stabile fiducia sociale, la cooperazione, la solidarietà, l’internalizzazione delle regole basilari del metodo democratico, rinforzando disposizioni nonviolente che a loro volta rinforzano ulteriormente le istituzioni democratiche.

Questa tesi di un rapporto stretto tra democrazia e pace non riguarda però soltanto le relazioni interne in Stati stabilmente democratici, bensì anche le relazioni tra Stati democratici. Secondo la teoria del “pacifismo democratico”, in un sistema globale in cui tutti gli Stati del mondo fossero stabilmente democratici la guerra sarebbe abolita e gli Stati democratici si accorderebbero sulla creazione di un Governo mondiale al fine di meglio e più efficacemente coordinare e realizzare le politiche comuni necessarie  per fare fronte ai maggiori problemi globali .Alla base di questa teoria sta l’assunto che Stati pienamente  e stabilmente  democratici  non si fanno guerra. A riprova di tale assunto è addotto l’argomento che sino ad ora le democrazie non sono entrate in guerra tra loro.

Ma è vero questo assunto? La risposta a questa domanda dipende da quali sono considerati gli standard che uno Stato deve soddisfare per poter essere caratterizzato come democratico. Se gli standard sono minimi si possono addurre esempi di Stati democratici che si sono fatti guerra; un tale esempio è la prima guerra del Kashmir nel 1947-49 fra India e Pakistan che avevano da poco introdotto il sistema parlamentare e il suffragio universale. Per contro, tanto più esigenti sono questi standard, tanto più si restringe il numero degli Stati democratici e tanto più plausibile può essere sostenere che quelle che sono chiamate “le maggiori democrazie” sino ad oggi non sono entrate in guerra tra loro.

Perché?

La spiegazione più ottimista potrebbe essere questa.

Le maggiori democrazie sino ad oggi non si sono fatte guerra tra loro in quanto sono le popolazioni degli Stati democratici a essere restie a ricorrere a, e sanzionare la guerra; ciò non tanto, o soltanto come pensava Kant, a causa dei costi in vite umane e sofferenze che la guerra fa sempre ricadere sulle popolazioni, bensì perché anche perché cittadini degli Stati democratici hanno rinunciato alla violenza come metodo di conduzione dei conflitti all’interno della propria società e, praticando la democrazia, hanno interiorizzato le regole del gioco democratico, regole che sono quindi portati ad applicare, reciprocamente, anche nel caso di conflitti con altri Stati democratici.

Si può sperare che sia così. Ma vi sono problemi.

Uno stato democratico come gli Stati Uniti ha più volte appoggiato governi non democratici per mantenerli al potere; ha appoggiato le dittature militari in America Latina, e oggi appoggia Stati autoritari in Medio oriente, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi.  Ed è più volte intervenuto in appoggio a forze antidemocratiche nel rovesciamento di governi eletti democraticamente, come nel caso del rovesciamento del governo di Allende in Cile, del governo di Arbenz in Guatemala, e del governo di Mosaddeghin Iran. E oggi, il nuovo presidente degli Stati Uniti ha fatto capire che Make America Great Again comprende l’espansione del territorio della nazione e ha minacciato di prendersi la Groenlandia, il Canada e il Canale di Panama con il bastone se non riesce a ottenerli con la carota.

Inoltre, e più in generale, come rilevato in vari rapporti e da un numero crescente di studiosi, negli ultimi dieci anni si è verificata una “regressione di democrazia” in un crescente numero di Stati democratici. In vari di questi Stati la regressione di democrazia è andata di pari passo con l’avanzata di partiti neo-nazionalisti e di estrema destra; ed è pure correlata con il graduale processo di privatizzazioni che sottrae sempre di più ai parlamenti democratici importanti decisioni economiche che incidono sugli interessi di tutti i cittadini e le trasferisce al mercato. E col trasferimento di tante decisioni al mercato sono aumentate le disuguaglianze economiche, sia nella distribuzione del reddito, sia, e ancora di più nella distribuzione della ricchezza. E le profonde disuguaglianze economiche incidono a loro volta sulle disuguaglianze sociali e politiche, mettendo sempre più in pericolo le sorti della democrazia.

Insomma, il futuro della democrazia non è garantito.

Occorre che sorga un grande movimento dal basso che si opponga alle forze che minacciano sempre di più la democrazia e spingono il mondo verso la barbarie di nuove guerre.

Opporsi alla barbarie della guerra senza diventare barbari, questo è oggi il problema più immediato; opporsi alla logica della volontà di potenza con mezzi immuni dal contagio di essa.  Quella logica già enunciata, e forse anche denunciata, da Tucidide per cui «i forti fanno ciò̀ che hanno la potenza per fare, mentre i deboli accettano quello che sono costretti ad accettare». Fu in base a questa logica che gli ateniesi, dopo che Melos si era arresa a discrezione, fecero massacro tra gli abitanti maschi in età militare e deportarono in schiavitù donne e bambini; la stessa logica che domina tuttora nel mondo fra quanti vedono nella guerra la continuazione della politica con altri mezzi. Non si può uscire da questa logica con nuove e ulteriori violenze. Non c’è una guerra che pone fine a tutte le guerre, un terrorismo che pone fine a ogni terrorismo, una barbarie che pone fine a ogni barbarie, tranne la barbarie ultima dell’olocausto termonucleare. Non si tratta di abbandonarsi a discorsi apocalittici. Ma si deve assolutamente non assuefarsi alla convivenza con armi di distruzione di massa: si deve mantenere ben salda la “coscienza atomica”, la consapevolezza che la minaccia di una nuova Hiroshima globale è sempre più incombente.

Oggi, e nel più prossimo futuro il compito più̀ concreto e immediato riguarda l’ulteriore sviluppo e l’applicazione sempre più estesa di metodi di prevenzione e metodi di conduzione nonviolenta dei conflitti. Quale nonviolenza?

Per nonviolenza si può genericamente intendere l’insieme dei metodi di lotta non armata. Nulla esclude però che metodi di lotta non armata possano in determinate situazioni essere impiegati per pure ragioni tattiche, pragmatiche da gruppi politici che parallelamente o in altre situazioni ricorrono a metodi di lotta armata in vista della realizzazione di obiettivi essi stessi violenti.

Tutt’altra cosa è la nonviolenza specifica, attiva e positiva intesa come strategia di conduzione e trasformazione dei confitti mediante il ricorso a metodi incruenti di lotta che si articolano in una grande varietà di tecniche nonviolente costruttive. Una strategia fondata sul rifiuto della lotta armata in quanto controproducente in vista del fine di ridurre il più possibile la violenza nel mondo. Una strategia che in parte si ispira al pensiero e alla pratica etico-politica del Mahatma Gandhi. Il quale vedeva la strategia nonviolenta come mezzo per realizzare gradualmente la visione di una società umana globale- nello spazio e nel tempo -liberata dal flagello della guerra, in cui il potere è di tutti e un benessere collettivo sostenibile è distribuito nel susseguirsi delle generazioni in modo equo.

Gandhi sapeva bene, per diretta esperienza, che la via della nonviolenza positiva – della ahimsa -non è una via cosparsa di rose. Scrisse:” Enunciare la nobile dottrina dell’ahimsa è facile; osservarla in un mondo pieno di conflitti, di sconvolgimenti e di passioni è un compito della cui difficoltà mi rendo conto ogni giorno di più̀”. Ma non disperava. Aveva una profonda fede nelle risorse morali, nelle capacità nonviolente e costruttive degli esseri umani.

La storia è innegabilmente segnata da una lunghissima corsa esponenziale ad armamenti sempre più distruttivi, dai tempi della guerra di Troia in cui si combatteva con archi, frecce e pochi altri rudimentali strumenti di morte, fino alle due grandi guerre  mondiali del secolo scorso in cui furono uccisi milioni e milioni di esseri umani – i calcoli fatti in vari studi variano tra  i 100 e 200 milioni. Guardando a questa escalation ad armamenti sempre più̀ distruttivi, ai massacri, alle carneficine, ai genocidi, alle guerre perpetrati sino ad oggi in quello che Hegel chiamava il «mattatoio della storia» si può pessimisticamente disperare di poter uscire dalla barbarie ed evitare la barbarie ultima di un olocausto dell’intero genere umano. D’altra parte, la storia umana è pure  segnata da un continuo tentativo di arginare e tenere sotto controllo le forze distruttive attraverso complessi meccanismi strutturali, istituzionali e comportamentali che, tutto sommato, sono quelli che sino a oggi hanno permesso alla specie umana di esistere e, in determinate condizioni, alle società umane di fiorire; facendo perno su, e sviluppando ulteriormente, quelle risorse morali costruttive che si sono sviluppate nel corso  dell’evoluzione, la cui funzione parrebbe essere quella di tenere sotto controllo i nostri impulsi più̀ distruttivi. Rivolgendo l’attenzione alle forze morali, costruttive e non violente che in ogni epoca della storia gli umani sono riusciti a mobilitare contro la violenza e la barbarie, si possono trovare ragioni per non disperare, appigli per un’intelligente speranza che le forze morali costruttive di cui noi esseri umani siamo forniti possano ulteriormente dispiegarsi, abbiano il sopravvento su quelle distruttive e le generazioni future vivano finalmente in un mondo liberato per sempre da flagello della guerra, un mondo in cui  regna una pace perpetua.

Come scrisse Immanuel Kant: non sappiamo “se la pace perpetua sia una cosa reale o un non senso…ma dobbiamo agire come se fosse una cosa reale, il che forse non è, e operare per la fondazione di essa”. Quando? Sempre, qui ed ora; come nella Scuola di pace e nonviolenza che oggi siamo qui a inaugurare. Prigionieri, anche noi, di quella intelligente speranza di cui era prigioniero Gandhi.

Verona,7 febbraio 2025

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